Viaggiatori nelle nostre terre

Racconti di viaggiatori stranieri che dal medioevo ad oggi hanno percorso la Svizzera

Prefazione di Michele Fazioli al testo: Viaggiatori nelle nostre terre a cura di Carlo Caruso,

Armando Dadò Editore, Locarno 2000

Questo è un libro di spazio e di tempo. Un territorio (la Svizzera) è attraversato da un viaggio lungo quasi sette secoli, che è poi l'età stessa del nostro Paese, almeno come origine confederale. Dentro l'oceano di carta dei secoli, l'appassionato curatore Carlo Caruso ha scovato, come messaggi in bottiglia riaffiorati, fogli di viaggio di viandantfcelebri imbattutisi, talvolta per diletto ma quasi sempre per necessità, nelle terre elvetiche. L'abbraccio di nomi e di epoche è vertiginoso e ambizioso: si va, come dice il titolo, da Francesco Petrarca fino a Elias Canetti, passando da Machiavelli, Goethe, Montaigne, Casanova, Papa Pio II, Stendhal, e molti altri. Sono sprazzi di memoria, annotazioni puntigliose e liriche, giudizi lucidi o pregiudizi di maniera, rapide sensazioni e fulminanti irhuizioni, esercizi poetici e concretezze d'esperienza. Il libro che ne esce, composto di frammenti non comunicabili tra di loro (ma con impensabili rimandi) è come un giornale che, uscito una sola volta in settecento anni, tenti di dar conto cronachistico della realtà incontrata: ed eccodunque quaranta «réportages» d'autore, minuziosamente realistici o pressapochistici, dotati di leggerezza o muniti di ardita licenza lirica o umorale, come si conviene del resto ai «réportages» di tutti i tempi.
Gran parte degli scritti sono note di viaggio o memorie di incontri fugaci: ecco quindi uomini, donne e carrozze attraversare scenari dolcissimi o tremendi di montagne e bufere; ecco locande, fuochi, osti onesti e astuti, belle figliole, compagnia di vini e malinconie, disagi e riposi, ritratti, prediche, duelli dialettici, teridttivi di universalizzare un'esperienza in un giudizio politico o storico. E così Petrarca, nel 1356, scopre che Basilea, oltre ad accogliere suoi vecchi compagni d'università a Bologna (com' era unita l'Europa d'allora, senza aerei né Internet!) è una città tedesca di grazia latina, dotata di «italica gentilezza». Goethe, nel 1775, sosta sul San Gottardo conquistato dallo splendore rigoroso di una natura austera e forte, in bilico fra il ritorno rassicurante verso nord e la tentazione ardita della fuga verso il sud.
Lo scienziato Alessandro Volta, nel 1777, passa nelle gole del Piottino, sotto il Dazio grande, e rimane atterrito dai burroni arditi e bui. Stendhal, nel 1837, punge l'ipocrisia aristocratica di Ginevra, Lord Byron adocchia fra Brienz e Thun la malizia di ragazze floride in un gioco di seduzione appena abbozzato; Giacomo Casanova, a metà Settecento, incrocia duelli di conversazione filosofica con il grande Voltaire ma non disdegna amorazzi lubrici. E poi, ancora, il grande Montaigne «prende le acque» a Baden nel 1580 e annota con puntiglio le vicende delle proprie consolazioni intestinali. N el1824 il finissimo Metternich, per troppo zelo, si ferma a Martigny per una cena con 29 portate e subito si reca a Sion, dove i membri della Dieta lo costringono a un sontuoso pranzo di 79 portate, cui per dovere formale il grande diplomatico non riesce a sottrarsi, ingurgitando 108 portate in un sol giorno.
Mark Twain nel 1878 trasporta sulle pendici del Rigi il suo caotico umorismo in una satira del mito turistico svizzero degli americani. E un turista un po' nevrotico e ombroso, lo scrittore Henry James, si incanta nel 1875 sul Monte Generoso, di cui ammira l'ardimento alpino e l'addolcito sguardo verso il meridione. li grande camminatore inglese Samuel Butler, a metà Ottocento, è cronista minuzioso di monumenti, paesaggi e incontri lungo i sentieri e nei villaggi delle valli ticinesi e mesolcinesi. Nel 1907 Edith Wharton, raffinata scrittrice, si ferma a Spltigen e lo racconta con precisi dettagli e con incuriosita narrazione, immortalando nelle lettere americane quel minuscolo villaggio grigionese.
- Insomma, i viandanti passano e scrivono, annotano scorci, sensazioni, vedute, umori. La somma di questi fogli di viaggio sparsi nei secoli ci restituisce lampi di realtà incontrate dentro la mobilità non tanto geografica (i paesaggi son sempre gli stessi) quanto storica: diverse le epoche, le circostanze, le vicissitudini, le istituzioni, i poteri, i costumi. Da questi ritratti non emerge naturalmente una unitarietà costante della realtà svizzera, di cui invece appaiono come tessere di mosaico i volti differenziati dentro il lungo cammino del tempo della costruzione elvetica. E tuttavia, fra le righe delle narrazioni sembrano apparire i segni intuiti o evidenti di una filigrana costante. E così Ugo Foscolo, nel 1815, annota come negli Svizzeri «l'amor di patiia contiene con fede leale e perpetua concordi tanti generi d'uomini diversi di lingue, di usi e di dogma»: è già la sintesi della coesistenza e del federalismo della Svizzera moderna. Qualche decennio prima, nel 1777, William Beckford osserva come per gli Svizzeri il «loro precipuo interesse risiede nel mantenere una rigorosa neutralità di fronte ai litigi dei loro vicini, e nel vivere in perfetta pace con tutti»: come dire la politica estera della Svizzera sino ad oggi... Moltissime penne illustri, poi, riferiscono della predisposizione quasi naturale e comunque ben allenata degli Svizzeri alle armi, prefigurando il giudizio che nei nostri anni Ottanta uno scrittore americano darà del «formidabile esercito svizzero». Ma poi affiorano curiosamente qua e là anche alcune rapidissime annotazioni di costume che sembrano confermare den, tro la costanza del tempo quella che potrebbe essere una tipologia comportamentale degli Svizzeri. Un narratore racconta che ogni svizzero custodisce in tasca un coltello, che egli utilizza per ogni uso: e come non intravedere in ciò l'origine dell'universale e celebre coltellino militare elvetico? Altri due autori descrivono con stupore, nel Seicento, l'abitudine svizzera di non avere lenzuola nelle locande ma pesanti coltri piene di piume: è l'anticipazione della sperimentata presenza, in tutti gli odierni alberghi della Svizzera tedesca, dei piumoni... E alla fine del Cinquecento un viaggiatore inglese osserva come gli Svizzeri sono «usi riunirsi fra loro in edifici pubblici, dove si esercitano al tiro con balestre e moschetti»: qui è prefigurata, oltre alla consuetudine del «tiro obbligatorio», l'ancora oggi solidissima costellazione di stand e bersagli disseminati assieme alle mucche e ai ciliegi nelle campagne elvetiche. Certe realtà di costume, di temperamento, di comportamento e di riferimento valoriale affondano dunque le loro radici molto indietro nel tempo, come ci dicono questi brandelli salvati di cronache antiche di viaggio.
Ma infine vorrei, per terminare questa presentazione in volo della meticolosa e accurata fatica di Carlo Caruso, ricordare due giudizi forti e a loro modo molto più approfonditi rispetto a rapide annotazioni di viaggio. Entrambe dicono, a distanza di secoli, la specificità tutta nostra, e preziosa, e cara, di Paese saldato insieme, pur nel travaglio della storia, dalla costante tensione della libertà e della pace. Niccolò Machiavelli, grande studioso della dottrina dei poteri, osserva nel 1507 come gli Svizzeri «godonsi, senza distinzione alcuna di uomini [. . .], una libera libertà». E il premio Nobel perla letteratura Elias Canetti, quasi cinquecento anni dopo, nella sua grande opera La lingua salvata, parlando dell'idioma svizzero tedesco dirà: «Lo svizzero fu per me - venivo da Vienna in piena guerra -la lingua della pace. Ma era una lingua forte, con espressioni vigorose e contumelie assai caratteristiche, e quindi questa 'pacificità' non aveva niente di tiepido o di fiacco: la lingua menava colpi, ma il paese era in pace». Ecco: di questo affascinante diario di un viaggio lungo settecento anni, conservo, come riverberi di cristalli, queste due frasi di due grandi, riferite alla pace di un Paese né tiepido, né fiacco, e alla «libera libertà» di un popolo.